[ROMA] Cinque voci, una chitarra, qualche strumento low cost di accompagnamento e il talento: sono questi gli ingredienti principali di Oblivion Rhapsody, lo spettacolo attualmente in scena alla Sala Umberto di Roma, dove rimarrà fino al 29 gennaio. Proprio come le grandi voci della musica rilasciano il loro album best of per festeggiare un traguardo importante, così gli Oblivion – Lorenzo Scuda, Graziana Borciani, Davide Calabrese, Francesca Folloni e Fabio Vagnarelli – festeggiano il decimo anniversario delle loro tournée con un spettacolo che è un po’ il sunto della loro carriera. Oblivion Rhapsody è la summa di tutte le tappe che hanno portato gli Oblivion non solo a farsi conoscere al grande pubblico, ma anche a confermarsi come gli artisti più interessanti della scena teatrale contemporanea.
Dalla hit dei Promessi sposi in dieci minuti passando per la rilettura della Divina Commedia fino alla sempre incredibile rivisitazione della vita di Cristo da La Bibbia Riveduta e Scorretta, Oblivion Rhapsody accompagna lo spettatore in un viaggio fatto di leggerezza (ma mai di superficialità) e di competenza. Lo spettacolo in scena alla Sala Umberto è uno spettacolo musicale comico che fa ridere, e fa ridere molto: questo soprattutto grazie al talento trasversale degli interpreti. Negli Oblivion tutto sembra essere lasciato al caso, tutto sembra essere quasi semplice: e la grandezza sta proprio in questa finzione, nell’illusione della facilità dietro cui si nasconde una professionalità che permette agli interpreti di cantare, ballare, recitare e scrivere come pochi altri sanno fare. Da questo punto di vista lo spettacolo diretto da Giorgio Gallione non ha solo il merito di intrattenere alla perfezione, ma ci ricorda anche come dovrebbe essere un artista: capace, determinato e, soprattutto, libero. Forse il più grande merito degli Oblivion è ricordarci quanto bella possa essere l’arte quando è libera di essere sé stessa, quando ride di ciò che è considerato intoccabile, quando non accetta di piegarsi agli status quo imposti da ricchi e potenti. L’arte degli Oblivion è proprio qui: mettere in discussione se stessi come mettono in discussione l’arte stessa, che siano le canzoni del rock o la letteratura alta firmata dai vari Shakespeare e Giacomo Leopardi. Si tratta di un politicamente scorretto fatto con l’intelligenza di chi sa che, a volte, nella vita, “la risata può essere un’arma molto potente”.
Ma niente di tutto questo sarebbe possibile se alla base non ci fosse un talento che traspare quasi con prepotenza: senza bisogno di suppellettili, di grandi scenografie o mirabolanti oggetti di scena, gli Oblivion riempiono il palco, gli danno vita, e riescono a creare qualcosa di assolutamente riconoscibile e originale, che rimane impresso a fuoco nell’immaginario dello spettatore, che vorrebbe che lo spettacolo durasse molto di più. Dalle abilità canore alla chimica tra di loro, alle armonizzazioni – che sembrano quasi miracoli tanto sono perfette – non c’è aspetto di Oblivion Rhapsody che non funzioni alla perfezione. Inoltre, anche il fatto di proporre pezzi di repertorio non disturba affatto la fruizione: gli Oblivion dimostrano di non volersi adagiare sui proverbiali allori e il loro spettacolo è una continua variazione, una svolta che coglie di sorpresa anche lo spettatore più navigato o il fan più preparato. E quando si ha a che fare con un prodotto d’intrattenimento non c’è niente di meglio che essere sorpresi e meravigliati. E gli Oblivion riescono a farlo. E lo fanno meglio di chiunque altro.
Erika Pomella (Il Giornale)
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